Ha stupito tutti, Abdulrazak Gurnah.

Contro tutti i pronostici e le anticipazioni, Abdulrazak Gurnah, scrittore e accademico tanzaniano, ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura 2021 “per la sua intransigente e profonda analisi degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel golfo tra culture e continenti” (ANSA).

CHI È ABDULRAZAH GURNAH

Nato a Zanzibar 73 anni fa,  ha lasciato il suo Paese negli anni ’60, trasferendosi come rifugiato nel Regno Unito, dove vive tuttora. Lì ha conseguito un dottorato di ricerca e ha iniziato la sua carriera di professore universitario, insegnando letteratura inglese postcoloniale fino al recente pensionamento.

Oltre che professore universitario, Gurnah è un romanziere raffinato ed esperto, che ha trattato in modo profondo e delicato i temi del colonialismo, della ricerca di identità da parte degli immigrati, della memoria.

Si è distinto per le sue posizioni anticolonialiste, presentando la prospettiva di chi ha vissuto la colonizzazione e dei rifugiati, che della colonizzazione hanno subito, in vario modo, le conseguenze.

Dopo il primo romanzo, pubblicato intorno al 1973, Gurnah ne ha scritti altri 9, tra cui quello che è considerato il suo capolavoro, Paradise, finalista al Booker Prize. Di tutti, solo tre sono stati tradotti in italiano.

UN PREMIO INASPETTATO

Dunque cosa stupisce della sua nomina?

Probabilmente, spostare il centro dell’attenzione del mondo occidentale fa sempre perdere l’equilibrio. Gurnah non è mai stato un autore di bestsellers e non ha mai vantato cospicue vendite, tanto da essere stato poco tradotto e diffuso.

Eppure, quello che è dentro e dietro ai suoi romanzi, quella vena malinconica, vagamente poetica, quella capacità di condurre attraverso i sensi il lettore che, rapito dalle sue storie, sente di fare esperienza di ciò che è scritto, è qualcosa di unico. Qualcosa che soltanto il linguaggio sofisticato e volutamente evocativo di Gurnah può creare.

La memoria, stimolata da oggetti e situazioni, rende possibile la riflessione sul vuoto creato dalla storia coloniale, sulla difficoltà dei migranti nel conoscersi e nel riconoscersi in una cultura a cui non sentono di appartenere e in cui cercano di trapiantare le loro radici, nel tentativo di portare, nel futuro, un po’ del loro passato.

 

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